“USCITE DALLA GABBIA” intervista a Rita Pelusio
Liberarsi da etichette e stereotipi per creare un mondo che accetta tutti e non giudica nessuno. Questo il pensiero dell’attrice e regista comica, che dell’inclusività fa la bandiera dei suoi spettacoli
Di Barbara Pietroni
Ve la ricordate, in Colorado, nei panni della cameriera sudamericana del sindaco Letizia Moratti (di cui spiffera i segreti più irriverenti)? O nelle vesti della sposina di Bitonto, che insegue come una scheggia impazzita il suo Vito, atteso (invano) nella chiesa di San Nicola? Bene, rimanete aggrappati al senso di straripante simpatia che provate, ma fate tabula rasa dei vari «personaggi televisivi che all’epoca sono serviti a finanziare un sogno (il collettivo di ricerca e produzione PEM Habitat Teatrali, fondato nel 2014 con l’attrice Anna Marcato, ndr)». Perché questa è solo una punta dell’iceberg (e neanche la più alta): Rita Pelusio, 50 anni, è molto di più e, soprattutto, molto altro.
Non chiamatela “battutista” né “cabarettista”, consideratela invece «attrice, regista e formatrice appassionata, innamorata e praticante l’arte comica» (tant’è che nel 2006 ha vinto il Premio Massimo Troisi). Ora non ci resta che sostituire nella mente il suo ricordo televisivo, potente ma anche un po’ fuorviante. Immaginatela nel 2003 sul suo trampolino di lancio: Suonata – concerto per ragazza e pianoforte. In mezzo alla strada, avvolta da una folla curiosa, una clown contemporanea – con otto Big Babol in bocca – fa a pezzi una carcassa di pianoforte, per poi eseguire – di schiena o con i piedi – la Sonata al chiaro di luna, lanciando pezzi di cicca a destra e a manca. Aggiungete qualche intermezzo di canzoni «cattive e dissacranti» e avrete un quadro abbastanza preciso di chi sia la vera Pelusio.
È anche la 22enne inquieta che, dopo un percorso di teatro accademico, scappa di casa e va a vivere a Bologna, nelle case occupate di via Irnerio 53. Senza luce e senza acqua calda. Testa rasata e cappello di lana, si sveglia ogni mattina alle sei e con il gruppo di Espressione Corporea (guidato da Eugenio Ravo, uno degli ultimi allievi di Étienne Decroux) pulisce gli spazi di un ex bordello e fa otto ore di training fisico: disciplina ferrea e lavoro duro su ogni parte del corpo e su ogni movimento. «È stato un percorso molto inclusivo», spiega. «Per me, coloro che facevano teatro fisico erano esseri meravigliosi e statuari. Io ero piccola, magrissima, quasi un insetto, non pensavo di poter diventare una di loro».
E ad accompagnarla sempre è proprio il tema dell’inclusività. Per arrivare a tutti senza distinzione di genere, classe sociale, origine o religione, si avvicina al teatro comico e a quello di strada con il quartetto Zappalà e la compagnia degli Gnorri capitanata da Natalino Balasso. Studia clown e mimo alla scuola di Philip Radice (uno dei tanti nomi noti, con cui ha a che fare) e le si apre un mondo: «Mi innamoro di quest’arte che fa ridere, arriva al pubblico, è umana e parte dalla fragilità». Oggi vive in una traversa di via Padova (a Milano), zona ad alto tasso di inclusività, e le donne, gli stereotipi e «la società che ingabbia, esclude ed espelle» sono spesso al centro delle sue performance teatrali. Come ci racconta in questa intervista.
Tra attitudini e priorità, come si descriverebbe?
Come indole somiglio molto molto a un cane: perenne bisogno di giocare e cuccia calda a disposizione. Mi piace sempre stare in gruppo, la sorellanza per me è fondamentale. Come la ricerca di autenticità. Sono iperattiva e devo fare più cose
contemporaneamente, per riuscire a portarne a termine una (ride, ndr)!
Che tipo di donna è?
Sono creativa. E passionale, anzi fin troppo. Non mi considero una persona forte tout court, ma lo divento quando curo una regia. D’altra parte, se non sei forte, non puoi trasmettere sicurezza. Sono anche romantica ma a modo mio perché in realtà nel rapporto di coppia non sono mielosa, non amo le smancerie e mi imbarazzano i complimenti. Io e il mio compagno giochiamo a non dire “ti amo” e a cercare la parola giusta, anche inventata, che però ti faccia fermare un momento per trovare il suono che combacia con l’emozione. Ti… caramello, ti… tuffo, ti… abito. Non è più romantico di un pigro “ti amo”?
Quando e come ha deciso di abbracciare questa professione?
Ero alle superiori e la vicina di casa di mia madre mi portava a vedere gli spettacoli di Lella Costa. Fu allora che mi innamorai del teatro. La chiave di volta, poi, fu il nuoto. All’esame di ammissione per diventare insegnante mi bocciarono: spocchiosa, uscii dall’apnea pochi metri prima del dovuto. Fu un errore di presunzione. Così, siccome mi ero sempre detta: “O insegno nuoto o faccio l’attrice”, mi iscrissi alla scuola di teatro. Quell’episodio è stato un grande insegnamento di vita. Adesso, ogni volta che penso: “Tanto la parte la so, tanto non devo provare ancora”, mi si accende la lampadina di allarme piscina-apnea e mi dico: “Ripassa!”.
Perché, nel 2014, lei e Anna Marcato avete fondato l’associazione culturale PEM Habitat Teatrali?
PEM è un’incubatrice di progetti di ricerca sull’arte comica.
Nasce con l’intento di produrre pièce teatrali in modo etico, rispettando i diritti
dei lavoratori del nostro settore. Ognuno di noi mette a disposizione il proprio talento, cercando di rispondere alle urgenze creative. Non concepiamo l’arte scissa dal contesto sociale e politico. Per questo amiamo il teatro comico: perché permette di arrivare a tutte e tutti, portando riflessioni anche importanti con ironia e incanto.
L’intento è molto inclusivo. L’inclusività sta alla base anche dei suoi spettacoli?
Molto spesso. Il recentissimo Giovinette, le calciatrici che sfidarono il Duce parla di inclusività della donna. È la storia di un pugno di ragazze che, contro il fascismo e i pregiudizi di una società maschilista, fonda la prima squadra di calcio femminile italiana. In Eva – Diario di una costola questa idea è variamente declinata. Eva disobbedisce ed esce scientemente dal suo paradiso, desidera rompere quell’incantesimo che poi molto spesso è una gabbia per lei e per tutte le donne. C’è la Eva in carriera che si interroga sulla parità di genere e su quanto siamo costrette a imitare i modelli maschili per poter riuscire. Poi, c’è la Eva lesbica che rivendica gli stessi diritti degli altri e pretende di essere accettata socialmente. La Eva neomamma riflette sulla frase di Dio “Partorirai con dolore” e si chiede: “Ma perché devo partorire io? La mela l’ha mangiata anche Adamo, non può partorire
anche lui?”. La Eva anziana – tributo alla zia Amalia, mio angelo custode – chiede invece il riconoscimento dell’innamoramento anche in età avanzata, mentre è costretta in un paradiso fatto di badante e “girello”.
Progetti di inclusività anche fuori dal palco?
Abbiamo lavorato per due anni a Un altro viaggio, insieme a Uonpia (Unità operativa di Neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza) del Policlinico di Milano. Protagonista, un gruppo di ragazzi, migranti minorenni non accompagnati, che arrivavano da cammini molto difficili, da campi di detenzione della Libia, per esempio. Partendo da due scarpe scelte tra decine – oppure da uno zaino, un albero, una strada, una luna che simboleggiava il sogno – iniziavano a raccontare
una storia. Potevano inventarla, ma molto spesso attingevano dai ricordi. Era un percorso molto utile per loro e per gli educatori. In questo periodo, invece, io, il drammaturgo Domenico Ferrari e il collettivo PEM stiamo seguendo il centro di aggregazione giovanile del Giambellino, con ragazzi che vivono in un quartiere
fragile. Il laboratorio che conduciamo fa parte del progetto El Nost Milan di Atir, diretto e ideato da Serena Sinigaglia (al teatro Carcano dal 2 al 4 dicembre,
ndr). In questo lavoro è prioritaria l’inclusività.
Il mondo si sta aprendo in questo senso, secondo lei?
L’inclusività dovrebbe essere un’attitudine naturale. La nuova generazione sta provando a cambiare davvero il sistema condiviso nel quale viviamo e forse in futuro dovremo ringraziarla. Per arrivare davvero a un risultato, occorre che ognuno di noi faccia un po’ di fatica. I ragazzi la stanno facendo. Sono belli in questo senso: si sentono liberi di essere oggi Annalisa e il giorno dopo Alessandro.
Cioè: qual è il problema?